lunedì 10 novembre 2014

Bivacco in val Curone, a novembre. Monte Chiappo e dintorni

"Chissà poi perché il calzolaio mi ha messo dei lacci nuovi nello scarpone appena risuolato", mi chiedo, togliendoli e lasciandoli sul tavolo durante i preparativi della sera prima. Arrivati al parcheggio di Caldirola lo avremmo capito. Evidentemente, vai a sapere perché, deve aver rotto quelli vecchi, che sono sbrindellati e inutilizzabili. Cominciamo bene. Consultiamo il GPS nella speranza di trovare un posto civilizzato non troppo lontano - del resto, è sabato mattina - quando ci ricordiamo che c'è un altro paio di scarpe in macchina, dai lacci ben più corti. Li uniamo con un nodo triplo inglese probabilmente come direbbero gli anglofoni "overkill", e peraltro fatto anche male perché di fretta, ma che comunque si presta benissimo all'uopo e che terrà tenacemente per tutta la gita.
Non siamo riusciti a convincere nessuno a venire, forse perché le previsioni non erano ottimali (ma chi se ne frega, dico io), sia perché , oggettivamente, serve un minimo di equipaggiamento per passare una notte fuori a novembre, a mille e cinquecento metri - suppergiù - di altitudine. Così cominciamo a camminare. Guardo la mappa e mi accorgo che potremmo scappare subito via dall'asfalto allungando un po' il giro. Fatico a convincere Claudia che non è allenatissima ("ma non possiamo restare dell'idea originale, no eh") ma alla fine si va, e menomale. Ci giriamo e prendiamo la strada per il monte Giarolo.
Una mucca curiosa e giovane decide di assaggiarmi,
poi un cartello ci mette in allarme: "battuta di caccia al cinghiale in corso". Più che la paura di prendermi una fucilata, possibilità presente ma fortunatamente remota, mi infastidisce il pensiero di sentire il fastidioso e volgare suono dei fucili durante la giornata. Per fortuna sentiremo pochi spari. Ma andate a caccia con arco e frecce, perdio, che é molto più divertente. Il posto è bello anche se la strada è larga e non permette di farsi avvolgere del tutto dalla natura.
Poi diventa bosco.

Abbiamo due cartine imperfette: una è OpenStreetMap, alla quale contribuirò anche io con le scoperte fatte sul campo (infatti, appena posso, prendo strade non segnate) e l'altra è la carta dell'Istituto Geografico Militare: molto dettagliata, ma vecchia. Spesso i sentieri sono cambiati. A volte spariscono, altre volte ce ne sono di nuovi. Idem per le fontane. Eccetera.
Così finiamo che invece di salire al Giarolo, ci troviamo sulla dorsale a metà tra quest'ultimo e il Gropà, verso cui avremmo voluto scendere. Tagliamo così un pezzo della variante appena improvvisata e siamo sulla cresta, dove cammineremo per la maggior parte dell'avventura.


Mi tocca esercitare (a dire il vero con risultati mediocri) l'arte della pazienza per il passo di Claudia. Andare e fermarmi e andare e fermarmi mi sfianca. Ho fame di tempo, così raro, questo, libero dai pensieri e dai doveri, e lo voglio mangiare, tutto. Mi alleno per questo. Mi alleno nei giorni feriali per avere una pancia più grande da riempire di vita in quelli festivi.

E invece aspetto, finché non facciamo una pausa per mangiare.
Neanche a farlo apposta, proprio in quel momento si alza il vento. Prima faceva caldo e si stava bene con un solo strato di vestiti addosso, ora fermarsi potrebbe essere meno divertente, col vento che ti sferza la faccia.
Per carità, non è una tragedia, anzi. Ma è una perfetta occasione per tirare fuori il tarp e iniziare a giocarci. Cerco di fare un setup "lean-to" usando solo due terzi di tarp, che altrimenti sarebbe davvero gigantesco. Il risultato non è il massimo e porta via un sacco di tempo, ma per essere la prima installazione semiseria è decente. Mangiamo riparati dal vento e con un bel panorama davanti agli occhi.


Si continua, con il dubbio su dove fermarsi. Non siamo partiti prestissimo, le giornate finiscono presto: dobbiamo trovare un posto dove bivaccare prima del tramonto, ma soprattutto dobbiamo fare scorte di acqua. Siamo partiti, giustamente, con un solo litro a testa, per evitare di portarci in groppa diversi chili in più. La zona risulta, dalle cartine, ricca di fontane (dedicate anticamente al pascolo, scopriamo). Anche se nessuna è direttamente lungo il nostro percorso, costa meno una deviazione per andare a fare rifornimento di acqua, per poi riprendere la strada, che non portarsi tutta l'acqua necessaria direttamente dal parcheggio. E poi è anche più divertente.
C'è una certa fontana, chiamata "Ciapeta" (giuro), che é segnata sulle carte IGM, ma non su OpenStreetMap: andiamo a cercarla. Il fatto che non sia su OSM non significa, affatto, che non ci sia.
Così scendiamo fuori dalla traccia principale prendendone una poco marcata e senza alcun segnavia, né tantomeno cartelli.
Il posto è bellissimo. Spero di trovare l'acqua più per fermarmi lì, che per non dover camminare ancora. Arrivati al punto, tuttavia, dell'acqua non c'è traccia. Scopriremo dopo che probabilmente è un errore di cartografia IGM.
Lungo un sentiero a mezza costa, che taglia il monte Ebro da sotto - rivelando che non è così dolce, a tratti - puntiamo a una seconda fonte, questa volta segnata su entrambe le carte, che siamo convinti di trovare. Il sentiero è bellissimo, anche se scomodo da percorrere e poco segnato: evidentemente è poco battuto e rischia l'abbandono. Da un lato, è il suo fascino.





 La luce calante ci ricorda che i minuti corrono, eppure questa è probabilmente la parte più bella della piccola avventura. Vuoi per il sentiero lontano dalla traccia principale, vuoi per la luce infuocata, vuoi proprio perché il tempo stringe e carica un po' di adrenalina.
Arriviamo infine alla fonte, malmessa, ma presente, e ci zavorriamo di tanta acqua quanto ci permettono i contenitori: tre litri.

 Dobbiamo, poi, scegliere il posto dove dormire, e di fretta.

Mi piacerebbe dormire lungo il sentiero. Piano a sufficienza per ciascuno e in un punto bellissimo. Ma "no perché è meglio se stiamo di fianco".
In cima, allora! Sarebbe estremamente panoramico, e potremmo vedere sia il tramonto che l'alba. Ma no, perché c'è vento.
E allora stiamo sul fianco meridionale del monte. Ecco... qui.
"Non sarà un po' in pendenza"?
"Mah, proviamo".
Ci sdraiamo, sembra accettabile, non sarà una tragedia dormire con le gambe un po' verso il basso.
Una vocina mi ricorda di quanto scomodo fosse dormire in tenda non in piano, dai tempi dei primissimi campeggi alle manifestazioni di gioco di ruolo dal vivo. Eppure sembra così comodo, ora: va bene, stiamo qui.
Iniziamo a tirare il tarp in modo che sia spazioso ma ripari dal vento, lasciando una bella vista attorno a noi.

Il risultato non è male, anche se un po' basso, è capiente.

 E ci permette di accendere il fornello ad alcool. Riparato dal vento e ben areato, possiamo usarlo sotto il tarp. Rende bene, ci scalda un po', e ci permette di preparare e gustare la cena con questa vista:


L'unico neo è che non abbiamo preparato le posate prima di buttare la polenta, così quando cerco di mescolar trovo grumi da sciogliere. Non applico nemmeno troppa forza, ma il cucchiaio mi si spezza in mano, così dobbiamo condividere quello che rimane. Poi è ora di preparare il letto. Anzi, a dirla tutta è già un po' tardino.



Anche se il ricovero è pronto, decidiamo di provare la vera esperienza del bivacco e di essere circondati dalla natura - letteralmente. Intorno, sotto, e sopra. OK, sotto no: mettiamo un telo. Circa il sopra... in caso di pioggia il tetto sarebbe stato pronto e ci saremmo potuti rifugiare.
L'idea era ottima, il problema è stata la pendenza. Abbiamo sottovalutato - e io me lo ero dimenticato! che con sotto vari strati (il materasso, il sacco a pelo, e il telo, che abbiamo repentinamente tolto) si scivola. Ci accorgiamo che la pendenza, ahinoi, non era affatto poca, era notevole.
Morale: il freddo non ci tocca. I sacchi a pelo fanno un bel lavoro, e i sacchi da bivacco tengono noi e il sacco a pelo stesso, asciutti. Salvo quando Claudia decide di mettere alla prova la capacità traspirante del sacco da bivacco respirandoci dentro, naturalmente.
In compenso, ci svegliamo ogni tanto per riaggiustare la posizione (e ritirarci su di qualche decina di centimetri). 
La notte tuttavia passa e riposiamo decentemente, lo dimostrano le energie il giorno dopo. L'alba è spettacolare, purtroppo le foto non rendono.



Panorama:


Il fornello ad alcool consuma davvero poco: facciamo due volte il té aggiungendo pochissimo carburante. E poi in marcia. Si torna a prendere l'acqua, e si riprende la cresta.

Il secondo giorno inizia con un meteo meno spettacolare. C'è un po' di foschia, che è comunque affascinante. Quasi, tuttavia, rimpiango che non piova, come da previsioni. Sarò strano, me lo dicono in tanti, ma amo la natura quando piove.
Diventa più intima e più preziosa. L'acqua libera gli odori: della terra, dell'erba, delle rocce. Le salamandre e le lumache escono felici allo scoperto, mentre gli escursionisti - la maggior parte di loro, per mia fortuna - si rintanano. Così rimaniamo io e i pochi che mi seguono, e lo spettacolo è tutto per noi.
Il tempo "regge", tuttavia, anche se in basso si vedono nuvole, nella direzione di un bel bosco misto che guardiamo dal giorno prima, dall'altro lato della valle.



La parte antipatica della gita è il vedere che sul confine della valle a fianco, nella provincia pavese (valle Staffora) ci sono diverse postazioni attrezzate per la caccia con richiami vivi.
I nostri eroi si rintanano in casette mimetiche, mettono uccelli selvatici in gabbia a cantare, e sparano alle prede che si posano lì vicino. Davvero una caccia eroica. Evidentemente in provincia di Pavia è consentita, ma è davvero deprimente vedere che ci sono esseri umani così piccoli.

Ci rimettiamo a camminare, dopo un po' di saliscendi la compagna di camminata inizia ad accusare la stanchezza. Capisco che, ahimé, non si può allungare ulteriormente il giro come speravo. Mesi e mesi a pregarla di allenarsi buttati nel cesso.
Tanto vale fare una pausa pranzo più lunga e fare altri esperimenti col tarp, allora. Che pezzo geniale di equipaggiamento. Proviamo a fare una tenda chiusa. Che riesce benissimo: grande, spaziosa, e con un quarto del peso della stessa tenda in cui si sta in due stretti come in una bara XL.



Ci si sta talmente comodi che proviamo anche a prepararci un tè, dentro, per vedere se è sufficientemente ventilata per poterlo fare, in caso di intemperie. Di sicuro lo spazio basta.
Questa volta l'esperimento fallisce: dopo un paio di minuti dobbiamo spegnere il fuoco. L'anidride carbonica si accumula velocemente e ci si arrossanno gli occhi. Poco male, è servito comunque: scopriamo che per cucinare bisogna ventilare maggiormente lo spazio - per poi richiuderlo alla fine. Oppure preparare il tarp in modo da avere un vestibolo verso l'esterno: bisogna sperimentare ancora.

Vorremmo anche provare a metterci in un posto sicuro - su una pozza di fango - a bruciare di proposito alcune foglie  coprendole di alcool infuocato. L'obbiettivo è quello di vedere come si comportano quando prendono fuoco: se divampano o, come mi aspetto, se bruciano in modo controllato, e facilmente estinguibile in caso di incidente. Questo per avere un po' di consapevolezza in più: è lapalissiano che nel dubbio si rimane sempre prudenti.
Tuttavia, di nuovo, il tempo stringe, e soprattutto volge, finalmente, al peggio. La temperatura si abbassa, perciò impacchettiamo e partiamo verso il paese di Bruggi, frazione di Caldirola.
Per scendere attraversiamo finalmente il bosco. Che è bello, ma percorrendolo sull'ennesima carrozzabile mi manca la sensazione di esserne avvolto. Per fortuna a un certo punto ci imbattiamo in un bivio: una strada da cartografare, una scorciatoia, e soprattutto un percorso scomodo e abbandonato, molto più selvatico della strada appena percorsa.


Si ariva a Bruggi. Il paesino è antico, e si respira. Ci troviamo a due passi - letteralmente - dalla provincia di Pavia, siamo in quella di Alessandria, eppure si parla - e scrive - ligure. Adoro le quattro province.


Dopo è la volta di Salogni, lungo un chilometro di strada asfaltata ma piacevole,e poi alla ricerca di un'altra strada non presente sulle cartine più moderne - ma di cui sapevo dell'esistenza, perché avevo visto un tracciato GPS per ciclisti che passava di lì. Arriviamo a Caldirola dopo aver incrociato della vegetazione primordiale:

Arriviamo a un parco giochi poco prima del parcheggio. Ci mangiamo una polenta calda con gran gusto.


Poi si riprende la strada di casa, andando a trovare quel vecchino di don Mario, a cui avevamo promesso che saremmo tornati e per cui abbiamo scelto questa destinazione precisa. Non si ricordava neanche di noi, perdio, ma è stato contento della visita, e anche noi. Atei scomunicati a cui piace un prete, un paradosso che ancora mi spiego a stento, ma mi sarei fermato di più. Così come mi sarei fermato un'altra notte sulle colline, questa volta nel bosco, tirando un po' la cinghia col cibo rimasto, e partendo all'alba il giorno seguente. Purtroppo non è stato possibile, ma è stato memorabile anche così. Al punto che Claudia mi ha convinto a scriverne. L'ho fatto. Sarà di sicuro una buona memoria per il futuro, e dovrei farlo più spesso. Anche se serve quasi più tempo a stendere il racconto che a viverlo. Vivremo di memorie, meglio metterle per iscritto.


2 commenti:

  1. E hai fatto davvero bene a scrivere questo racconto. Mi sono perso pure io un po' nei boschi stasera.

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  2. Sì, una bella esperienza, primordiale e vestibolare! :-)
    Vedi che si scrive per aiutare i propri futuri ricordi...?
    Bravo per tutto!

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